Com'era l'olivagione 70 anni fa? Nonna Carmelina me lo ha raccontato

Voglio riproporre – a chi mi segue – questa piccola memoria del nostro territorio, una piccola ricchezza da conoscere ed apprezzare.  Siamo nell’epoca in cui si iniziava a suggerire la raccolta delle olive a mano e non con l’ausilio di canne, che oltre a danneggiare il frutto danneggiavano anche i rami che dovevano fruttificare l’anno successivo. E' il racconto della mia nonna, l'affascinante ricordo dell'olivagione di quando era giovane, aveva 15 anni. Appena 15 anni e già tanta responsabilità, caricata di tanto lavoro e di senso della famiglia. Brividi, se penso a quello che sono oggi la generazione dei quindicenni.

Si partiva presto, alle 5 del mattino, il nostro territorio è collinare e gli oliveti si raggiungevano dopo qualche decina di minuti di cammino. La “cesa” (così è chiamato l’oliveto dalle nostre parti) della nonna era quasi a San Pasquale – località di Piedimonte Matese – e si raggiungeva attraverso le mulattiere della montagna. Nonna mi racconta che non ci si vedeva mai soli, ad ascendere le montagne erano in molti, molte famiglie. Arrivati, non c’era tempo da perdere, subito a lavoro, già organizzati, chi sull’albero e chi a raccogliere le olive a terra, curvati - fino a quando si resisteva in quella posizione - e poi con le ginocchia a terra, che spesso era bagnata o umida. A dirigere i lavori era “ovviamente” il capo famiglia, mio bisnonno Carlo, nel bene e nel male, giusto o sbagliato, era lui che ribadiva cosa fare. E non era certo una imposizione o un cattivo carattere, era così per tutti, per tutte le famiglie, così doveva essere, era giusto, normale.
L’attrezzatura era blanda, solo la “Bunetta”, una sacca cucita con il tessuto di un sacco di juta che si avvolgeva in vita e dove si ponevano le olive man mano raccolte da terra, per poi versarle nel sacco più grande. Le mani ghiacciate dalla bassa temperatura di metà novembre e dal venticello freddo è il pensiero più ricorrente della nonna, si! – perché le olive si brucavano con le mani – senza l’ausilio dei piccoli rastrelli.
Arrivava l’ora del pranzo, il momento del pane con prosciutto del proprio maiale o altro derivato ed un frutto di stagione. La nonna ricorda con tanto amore quei tempi passati dell’olivagione, tutti nei propri oliveti di montagna – durante la raccolta – si chiamavano per nome e nomignolo stuzzicandosi benevoli, uniti nella stessa esigenza. Da una “cesa” all’altra: immaginate di vedere una fascia montuosa piena di ulivi, invasa da tante persone che si dedicano alla raccolta e nel contempo cantano liberi, seppure umili, si chiamano, fanno nascere frasi che poi diventano sani proverbi, lavorano. Infondo, dice la nonna, si stava bene prima, erano tempi diversi, era tutta un’altra cosa.

La sera – al calare del sole – si ritornava nelle proprie case, con il “fascio”, preparato da chi saliva sulle piante di ulivo a raccogliere e provvedeva anche alla potatura. Oggi magari si bruciano in campo, ma prima nulla si lasciava, era tutto utile, nel caso specifico la legna serviva per il focolare. A cena infatti, si cuoceva con la legna e con i carboni, patate e fagioli e frutta e verdura di stagione. Le olive raccolte venivano ammassate in un angolo, e quando iniziavano a tirare fuori liquidi venivano portate al “trappeto” o “frantoio”. Passavano diciotto, venti giorni. “…Noi le portavamo al trappeto in mezzo alla sorgente, dice nonna”. Il frantoio si pagava in olio, non in moneta, ogni 10 “sustare” di olio prodotto una “sustara” restava al frantoiano. La “sustara” o “stagnera” era il recipiente di stagno che veniva utilizzato per trasportare l’olio da olive prodotto, conteneva 10 litri di olio. Tuttavia, chi doveva acquistare olio, spendeva circa 9 lire al litro. C’erano anche persone, che finite le operazioni di raccolta, ci chiedevano: putimmu venì ‘atturnà ll’acino? (possiamo venire a raccogliere gli acini?). Si riferivano alle poche drupe che erano rimaste a terra negli oliveti, erano le persone meno fortunate – che non avendo la possibilità – chiedevano il permesso di poter raccogliere gli ultimi acini da terra con i quali estrarre un po’ d’olio per la propria famiglia. Era così anche per l’uva e per il grano, ossia per la produzione di vino e di pane. La nonna mi dice che non sempre la risposta dei proprietari era Si.

E poi, conclude, si aspettava con tanta gioia la Domenica, sia perché giorno di riposo e di festa, sia perché si mangiavano i maccheroni al sugo di ragù e la carne.

Questo è il bel racconto della nonna, è bello conoscere questi piccoli vissuti – così lontani da noi – ed immaginarli come un sogno nella propria mente, almeno per me che non li conosco. Una cosa è certa: l’olivicoltura, come l’uomo e la vita, non ha mai smesso di migliorarsi. Almeno da 70 anni ad oggi.


di Vincenzo Nisio - tutti i diritti riservati

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